1 set 2011

Narducci (PD): Italia, crisi libica e diplomazia del senno di poi

Fin dall’esordio della crisi libica ho sostenuto che la condotta del Governo italiano rispetto al problema libico sarebbe dovuta essere decisa, lineare e pendere, senza tentennamenti, dalla parte delle novità che stavano emergendo nel nord dell’Africa e nel mondo arabo, a prescindere dai nostri interessi economici più immediati. Invece la linea politica è apparsa confusa e inadeguata; quando poi sono intervenute decisioni di adeguamento, – il che in politica estera è fondamentalmente errato – si sono rivelate quanto meno intempestive rispetto all’evoluzione in corso.
 Non appena scoppiò la cosiddetta primavera araba, tutto il mondo occidentale fu comprensibilmente colto di sorpresa, perché le tradizionali categorie interpretative del mondo arabo, secondo le quali questi popoli - ritenuti fanatici, litigiosi, inattendibili - erano tradizionalmente etichettati come immaturi per la democrazia. Ma nel volgere di qualche settimana tutte le cancellerie occidentali, superata la sorpresa, incominciarono ad affinare i propri strumenti di lettura di quanto stava accadendo e a porre in essere comportamenti conseguenti. Certo nessuno possedeva la verità e neanche oggi, a pochi mesi dagli eventi, si può dire con certezza che tipo di evoluzione produrranno questi avvenimenti. Ma quello che può essere certo è che quando la storia cambia direzione e a furor di popolo si versa il sangue per rovesciare i regimi, è buona e sensata regola seguire gli avvenimenti, ovunque si pervenga. Ricordiamo che all’esplodere della crisi libica in qualche modo passò la parola d’ordine tra tutti gli alleati occidentali che tutti si sarebbero occupati dell’intero problema ma che ciascuno avrebbe profuso maggiore impegno nelle più dirette zone d’influenza. Ma soprattutto i capi delle tre maggiori potenze occidentali, Stati Uniti, Francia e Inghilterra - abituate a marciare insieme da vari decenni nelle crisi internazionali -, decisero di metterci subito la faccia. Le opposizioni all’interno furono energiche: Sarkozy andò incontro a qualche disfatta elettorale, Obama fu attaccato duramente dai repubblicani nel proprio Parlamento, e a Cameron si chiedeva quantomeno dove avrebbe preso i soldi per sostenere le operazioni militari. Ma tutti tennero il timone delle navi dritte verso il golfo della Sirte e il muso degli aerei contro gli equipaggiamenti militari del regime. E poiché la soluzione della crisi libica si prospettava di più complessa gestione, poiché Gheddafi non era Mubarak o Ben Alì e non sarebbe stata sufficiente una telefonata di Obama perché cambiasse aria, in qualche modo si guardò all’Italia. Come dire: da tempo immemorabile è il vostro “Mare Nostrum”, è stata una vostra colonia, avete molti interessi economici oltre che legami culturali e presenze significative, occupatevene voi; noi vi daremo tutto il nostro appoggio, anche perché siamo più direttamente occupati in altri scacchieri internazionali e come voi abbiamo pure problemi di bilancio. E invece iniziò la solita pantomima all’italiana. Le discussioni e le opposizioni sono fisiologiche in un sistema democratico, ma le decisioni, una volta assunte devono essere nette e coerenti. Il nostro Governo invece ha iniziato ad appoggiare, obtorto collo, la coalizione dei volenterosi libici in rivolta, ma lasciandone il peso prevalente alla Francia e alla Gran Bretagna, quasi nascondendo il proprio intervento dietro di loro e i doveri europei e precisando che il massimo della disponibilità sarebbe stata quella di fornire le basi per far decollare i mezzi aerei degli altri Paesi della coalizione. I nostri aerei sarebbero rimasti fermi; anzi no, sarebbero decollati solo in perlustrazione. Senza lanciare missili e bombe? No di certo, perché Gheddafi è amico di Berlusconi e la Lega dice che bisogna fare come la Germania e disinteressarsi della guerra. Però se dovete fare conferenze per parlare del futuro della Libia e parlare di contratti per la ricostruzione noi ci siamo … Con prudenza, naturalmente, perché Gheddafi con le sue minacce ci fa sempre paura. E, infatti, il Parlamento italiano si espresse, a colpi di maggioranza, per l’immediata fine del suo impegno in Libia entro l’estate (per fortuna l’estate italiana è lunga!) Come accade oramai da tempo, sulla questione libica il Governo aveva due posizioni distinte che poi occorreva conciliare cedendo su altre questioni: quella della Lega, schierata contro l’intervento ma che con la botte piena voleva anche la moglie ubriaca, cioè evitare gli sbarchi di profughi sulla base del principio “noi non c’entriamo nulla e quindi andate nei Paesi che vi stanno bombardando”, e quella del premier Berlusconi che pur essendo d’accordo con la Lega dichiarava di sentirsi trascinato in quest’avventura dalle telefonate di Obama (che lo gratificava comunque ascoltando le sue rimostranze contro i giudici italiani) e di Sarkozy, ma soprattutto dalla posizione ferma del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che negli ultimi tempi stava diventando così invadente nei suoi confronti da richiamarlo quasi quotidianamente al pieno rispetto degli impegni internazionali e del ruolo del nostro Paese nel Mediterraneo. Oggi che la crisi libica è giunta quasi alla sua soluzione e si sta preparando “il dopo”, la Francia giustamente raccoglie per prima i frutti del suo decisionismo, che talvolta è andato anche oltre la stessa risoluzione dell’Onu, e con essa Obama e Cameron che ottengono il riconoscimento dei ribelli che sanno bene quanto questi si siano impegnati a fare oltre il dovuto, come gli ricordavano tutti i giorni le critiche di Paesi come Russia, Brasile e Cina, a tacere dei tradizionali nemici dell’occidente in Medio Oriente. Come capita sempre in questi casi, dopo che gli altri hanno fatto il lavoro, tutti coloro che sono stati ad assistere dalla finestra e rivolgere critiche sono i primi a voler cogliere i frutti. La Cina e la Russia chiedono che non siano i Paesi occidentali a dirigere la ricostruzione ma, appoggiati da molti Paesi africani e arabi che hanno sostenuto più o meno direttamente Gheddafi fino all’ultimo, vogliono che sia solo la Lega araba e l’Unione africana a occuparsi di essa, sia pure sotto l’alta sorveglianza dell’Onu (in modo tale che anche loro possano avere voce in capitolo nei contratti). Viceversa in Europa rispunta addirittura la Germania, leggermente imbarazzata per la sua neutralità (che Helmut Kohl ha rinfacciato in questi giorni alla sua creatura Angela Merkel), che rivendica sommessamente un suo ruolo in quanto “esperta” in ricostruzione. In questo generale starnazzo di tutti coloro che credevano che Gheddafi sarebbe riuscito a domare gli insorti, l’Italia non ha trovato di meglio che issarsi più di tutti sul carro dei vincitori lasciando al ministro degli esteri Franco Frattini - nel silenzio pudico di Berlusconi e della Lega - il compito di ribadire ad alta voce gli argomenti cui aveva fatto orecchie da mercante quando glieli proponevano gli alleati per assumere l’iniziativa in Libia. Ossia i numerosi e vecchi rapporti interpersonali, la presenza radicata di aziende italiane nel territorio, tirando in ballo perfino il nostro contributo diretto nelle operazioni militari attuali di Tripoli con il contingente di 200 “istruttori militari” che opererebbero con i reparti speciali inglesi e francesi (mai smentiti dai rispettivi governi), dimenticando i continui interventi dei ministri Frattini e La Russa che quotidianamente, sulla stampa legata alla destra e alla Lega – che per inciso irrideva gli insuccessi Nato in Libia e deprecava l’interventismo italiano - sostenevano che simili forme di partecipazione diretta alle operazioni militari non erano mai esistite. A questo punto abbiamo scoperto anche di avere una diplomazia all’opera dal momento che il ministro degli esteri, tra gli argomenti a favore dell’impegno diretto ha fatto sapere che, a una settimana dall’esplodere della rivoluzione libica, avrebbe inviato il suo Capo di Gabinetto per prendere contatti con il Comitato dei ribelli (e chi ha inviato nel contempo a prendere contatti con Gheddafi per assicurargli che, col cuore, il vecchio amico Berlusconi era sempre al suo fianco?). Non solo, ma si è presentato al governo francese anche l’ambasciatore italiano a Parigi per protestare formalmente, contro l’iniziativa di organizzare a Parigi in città la conferenza per la ricostruzione (La Stampa di Torino di qualche giorno fa). Ci chiediamo, a questo punto, perché, da presidente a presidente, non l’ha fatto Berlusconi posto che questa riunione porta integralmente la firma di Sarkozy? L’ambiguità italiana in politica estera in fondo è storica, per cui anche in questo caso siamo stati fedeli ai principi che guidano la nostra azione diplomatica dalla prima guerra mondiale di non assumere mai posizioni chiare e ufficiali e di attendere l’ultimo momento, a bocce ferme, per schierarci. Il risultato è che a fronte delle interviste e delle dichiarazioni di molti politici che furoreggiano nelle riunioni dei lussuosi hotel o nelle sale ovattate dove si tengono riunioni internazionali per parlare del problema libico, la stampa internazionale – che auspicava un nostro deciso intervento all’inizio della crisi (ricordate quanto ci scongiurarono di inviare i nostri mezzi aerei che erano gli unici in grado di monitorare il territorio?) non considera minimamente l’Italia quando si parla dei Paesi che dovranno guidare il dopo Gheddafi, riflettendo evidentemente l’opinione dei rispettivi Governi. È triste assistere a questo ritardato trionfalismo italiano, dopo che probabilmente accadrà che i soldi spesi in Libia torneranno triplicati e quadruplicati per chi si è esposto in prima persona a sostenere la caduta del “colonnello”, e che si sono fatte le orecchie da mercante davanti alle disperate richieste di aiuto degli insorti libici e ci si è fatti prendere dal panico e dall’isteria per i rifugiati che sono approdati a Lampedusa – che magari si sono sparsi su tutto il territorio europeo e neanche solo sul nostro - lanciando insulti e minacce all’Europa che per fortuna ha reagito con signorilità. Forse in questo quadro dovremmo prendere in considerazione anche il funzionamento di una certa parte della nostra diplomazia rispetto alla quale il Ministro degli esteri dovrà chiarire se gli indirizzi e le informazioni fornite su questi temi erano corretti e attendibili, e se il governo si è mosso sulla base di questi o contro di questi. Poiché, soprattutto in un momento di ristrutturazione e di contenimento dei costi della macchina amministrativa, è lecito sapere se il nostro personale che lavora in questo campo è stato all’altezza delle grandi diplomazie europee e non solo in fatto di trattamento economico. Il Dipartimento di Stato americano ha incominciato a rivedere, all’inizio dell’anno, il proprio profilo destinando a compiti diplomatici e di presenza all’estero figure professionali con più diretta attinenza con i nuovi compiti - economici, culturali e d’intelligence - che esige un Paese con diretti e diffusi interessi nel mondo. Forse anche in Italia, viste le tante ristrutturazioni “riformiste” in corso, è ora di pensare a modelli alternativi; non vorremmo che gli unici sforzi di contenimento della spesa si concentrassero sulla chiusura dei consolati, i tagli agli interventi per i nostri connazionali all’estero e alla cooperazione allo sviluppo. (Franco Narducci per il Corriere degli italiani di Zurigo)

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