Il 2013, da poco concluso, si è caratterizzato per le forti turbolenze che hanno scosso lo scenario politico italiano ma anche per un aspetto positivo, impensabile fino a pochi anni fa: ha preso il via il ringiovanimento (di idee oltre che anagrafico) della classe politica. Una pattuglia di quarantenni si è impadronita delle leve di comando del Partito Democratico, del Nuovo Centrodestra e della Lega.
E, ancora più giovani, si affacciano i partiti di opposizione al sistema, per quanto si facciano rappresentare da leader ultraquarantenni. Beppe Grillo, ascoltato da quasi un quarto degli italiani sulle cose che ripete, inascoltato, da vent’anni nei palcoscenici dei varietà di tutto il Paese; Silvio Berlusconi che ripropone, sempre meno ascoltato, riforme e svolte al Paese, ma non si capisce per quale ragione non le abbia fatte nei quasi vent’anni in cui è stato protagonista. Dopo di che vi è la presa di coscienza degli italiani della gravità della crisi e la consapevolezza che occorre invertire con forza la rotta.
Ed è qui che la trasformazione delle novità in plancia di comando in realtà è attesa al varco. Rivolte e ricambi generazionali le hanno conosciute un po’ tutti i partiti politici italiani nella lunga storia repubblicana. La definizione di “giovani turchi” fu un’etichetta usata e abusata. Il problema è sempre stato cosa fare una volta saliti al potere. Oggi, in teoria, si saprebbe cosa fare. Viviamo in un ingranaggio internazionale tale che le strade percorribili – dall’allungamento dell’età pensionabile alla riduzione del cuneo fiscale, alla selezione della spesa sociale, agli interventi strutturali sul territorio, fino alla riforma della politica, della giustizia e della burocrazia, ecc. – ci vengono suggerite senza posa dalle istituzioni europee e mondiali.
I problemi che frenano il Paese, tuttavia, sono principalmente due. Per primo, i conti pubblici sballati, che vanificano tutti i rimedi, compreso quello di andare incontro alle richieste maggiormente di pancia dell’opinione pubblica di azzerare con un colpo di spugna la spesa della politica, ossia riducendo di due terzi il parlamento, abolendo le province, contenendo in termini di numero e di costi i consigli regionali e ridimensionando drasticamente i consigli comunali, con tutto ciò che ne consegue contro gli sprechi, i privilegi, le indennità e i tagli delle pendici, dai partiti alle burocrazie, agli enti e società collegate, ecc. Tutto ciò, come abbiamo osservato per decenni, stimola ancor di più l’eterno atteggiamento da giocatori di poker degli italiani rispetto alle riforme impopolari: si attendono che a perdere sia sempre il vicino di tavola. Ossia che i tagli degli stipendi o delle pensioni, gli aumenti delle tasse e i provvedimenti negativi in genere, sia pure reputati universalmente indispensabili, non tocchino mai noi, ma solo ed esclusivamente gli “altri”. Ne emerge una corsa a sottrarre singoli o gruppi dagli effetti negativi di norme pensate a carico di tutti che, chiunque abbia fatto il legislatore, ben conosce: articoli e commi che limitano, che consentono eccezioni, che esentano, che prorogano, ecc. Tali escamotage, proposte da lobby e da gruppi di pressione, rappresentano la realtà quotidiana della battaglia parlamentare. I micidiali decreti “mille proroghe” di fine anno fanno puntualmente da ciliegina alla torta di auguri di fine anno.
Il secondo aspetto grave, rispetto al quale ci aspettiamo che il Nuovo Anno induca a riflettere, è il crescente isolamento internazionale che ci sta caratterizzando, di cui la vicenda dei due marò trattenuti da oltre due anni in India è solo la punta dell’iceberg. Il mondo è colpito sicuramente da una lunga crisi economica con risvolti drammatici nel nostro Paese, che alla crisi globale ha sommato anche la sfiducia e il senso d’impotenza che lo caratterizza.
Recentemente l’Economist, commentando il pessimismo che emerge dagli ultimi sondaggi sugli americani, sosteneva che questi si accingono a diventare sempre più “italiani”, preoccupati del loro futuro e, soprattutto, della loro classe politica. Si tratta di una china, questa, che ha indotto il passato 2013 diverse autorevoli istituzioni economiche internazionali a prevedere che l’Italia, tra quindici anni, passerà da ottava potenza industriale nel mondo (fine 2011) a quindicesima. Gli indicatori della competitività, della produttività, del Pil, della corruzione percepita, ecc. si rivelano in discesa anno dopo anno.
Posto che sulla ripresa poco potranno incidere i consumi interni (per nulla credibile appare, per esempio, che chi ieri tuonava contro il consumismo oggi predichi con la stessa foga la necessità di riprendere a “consumare”), giacché la tendenza è scaricare – attraverso la tassazione e gl’investimenti individuali – il debito pubblico sugli italiani, la strada rimanente è quella dell’export. Una strada che peraltro si sta rivelando l’unica percorribile, ma solo grazie all’iniziativa privata e non all’intervento pubblico, che se può cerca piuttosto di soffocarla.
Come si può contare su quello pubblico quando, per esempio, in un evento come l’Expo 2015 di Milano, le trattative per coinvolgere attivamente AIKAL e UNAIE, ossia due autorevoli rappresentanze dell’associazionismo italiano e imprenditoriale all’estero, sono in procinto di naufragare per l’intervento di settori parassitari dell’amministrazione pubblica abituati a ficcarsi sul piatto ricco quando c’è da scialacquare i soldi dei contribuenti? E, anche volendo, come potrebbe attirare capillarmente l’attenzione degli italiani e italofili nel mondo, quella parte del Governo, il Ministero degli Affari esteri, che attraverso una drastica riduzione della propria rete diplomatica all’estero, si tiene sempre più lontano non solo dagli italiani, ma anche dagli stranieri potenzialmente interessati all’Italia?
Si sa, il legame del nostro Paese col resto del mondo si è retto e rafforzato anche grazie alle migliaia di fili e reti intessuti quotidianamente dalle piccole e grandi comunità italiane, gestite con criteri di volontariato e basate su quel fenomeno dell’associazionismo che, nel mondo moderno, ha segnato l’affermazione dello spirito democratico rendendo possibile la solidarietà e la responsabilità sociale. Affidare questo compito a strutture chiuse in sé stesse e autoreferenziali come sono quelle burocratiche, interessate quasi unicamente a compiti “più prestigiosi”, è come affidare la custodia delle galline alle volpi.
D’altro canto il fenomeno è ulteriormente aggravato dalla sostanziale retrocessione dello Stato e delle Regioni dagli ambiti d’intervento a favore degli italiani all’estero. Lo stato, dopo aver maltrattato gli italiani all’estero con l’IMU, ha praticamente ridotto gl’investimenti in questo campo dell’ottanta per cento, mentre alcune regioni hanno addirittura cancellato i relativi capitoli di spesa e chiusi gli uffici che curavano relazioni e relativi adempimenti. In pratica, così facendo, si sono ostruiti i canali attraverso i quali passava quella media e piccola impresa del “made in Italy” che da sola non può accedere con successo al mercato internazionale. Rimangono, certo, le grande imprese, che non hanno bisogno di ponti assicurati dai corregionali all’estero e delle piccole mostre e fiere che questi continuamente organizzano, a tacer del passaparola – in termini non solo di consumo ma anche di promozione del prodotto - che in queste operazioni funziona meglio di ogni cosa. Si deve notare con grande rammarico anche che le grandi imprese italiane dell’abbigliamento, del design e dell’agroalimentare, una dietro l’altra, stanno cadendo sempre di più in mano straniera. Perciò i capitali fuggono dall’Italia e le lavorazioni avvengono sempre di più in paesi stranieri. Anche quando l’impresa è italianissima, come dimostra il caso della Ferrero, che svolge le sue maggiori lavorazioni in Germania.
Infine, vi è l’isolamento che ci creiamo da noi stessi. Vale a dire quello che, con l’illusione di proteggerci dal mondo esterno, ci aizza contro i migranti. Da un lato una parte del Paese li maltratta quando arrivano e, dall’altro, li discriminiamo all’interno con istituti come il diritto di cittadinanza ancorato allo ius sanguinis, sorto in epoche in cui si edificavano gli Stati nazione europei su criteri di identità razziale. L’inversione del declino italiano avverrà solo facendosi avvolgere dai grandi processi di mobilità internazionale in atto nel mondo moderno, in cui duecentocinquanta milioni di esseri umani si spostano in tutto il globo, inclusi tanti giovani italiani che seguono la via dell’estero.
Non si può continuare a flagellarsi per l’una o l’altra cosa, imprecando contro il destino cinico e baro perché degli stranieri entrano e italiani escono. È storicamente provato che i fenomeni di mobilità – inquadrati in un quadro di norme e leggi degne del loro nome - fanno la fortuna delle aree interessate. Andare contro questi fenomeni significa andare contro la storia, contro i processi di civilizzazione e votarsi alla marginalità economica. L’Italia ha bisogno di nuovi apporti. Dobbiamo essere consapevoli che da questa crisi uscirà solo chi avrà prassi e idee migliori e soccomberà chiunque rimarrà legato a vecchi comportamenti, a modi di pensare e di agire obsoleti, ad apparati produttivi e prassi economiche superate e, in generale, alla difesa fine a sé stessa dell’esistente. Per tutti questi motivi il rinnovamento generazionale è benvenuto, ma non può essere solo anagrafico, dev’essere soprattutto mentale.
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