a cura di
Dino Nardi, coordinatore UIM Europa, consigliere Cgie
Ancora una volta Paolo Di Stefano nel Corriere della Sera dello scorso 28 novembre si è occupato del critico stato di salute in cui versa la lingua italiana citando quanto affermato da uno dei maggiori linguisti italiani, Tullio De Mauro, nel corso di un convegno tenutosi a Firenze per iniziativa del Consiglio regionale toscano. Secondo De Mauro il 71% della popolazione italiana fatica a comprendere un testo di media difficoltà e solo il 20% riesce ad orientarsi e sbrigarsi autonomamente in “situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana”. Questo dato statistico, unitamente al burocratese imperante nella pubblica amministrazione italiana ed alla proliferazione e farraginosità delle leggi, a mio avviso, giustifica anche il proliferare di avvocati (ve ne sono più nella sola città di Roma che nell’intera Francia!), di commercialisti e di uffici di patronato di assistenza sociale. A maggior ragione, per le stesse motivazioni ma non solo ovviamente, abbiamo una diffusa presenza degli uffici di patronato anche all’estero tra l’emigrazione italiana, dove, tra quelli dell’Ital-Uil e degli altri patronati del CE.PA. e ancora di altre organizzazioni, se ne contano complessivamente 690 in tutto il mondo. Infine, sempre secondo questo insigne linguista italiano, dopo la forte crescita della scolarità che si è avuta sino agli anni Novanta in Italia – in media dodici anni di frequenza, mentre del 1951 la media era di solo tre anni – oggi siamo in presenza di un analfabetismo di ritorno dovuto soprattutto ad abbandoni scolastici ed a causa della dipendenza televisiva e tecnologica. Tutto vero, ma, sempre a mio avviso, l’analfabetismo di ritorno sta mietendo vittime anche tra le persone più anziane e non solo tra i giovani a causa dell’abuso di anglicismi nei media italiani pure quando non ce ne sarebbe proprio bisogno esistendo un’analoga parola in italiano (per esempio due termini abusati in questi giorni come “spread”, ovvero “differenziale”, quando si parla e si scrive di Buoni del Tesoro Poliennali, oppure lo “spending review” e cioè l’italianissima “revisione della spesa”). Persone anziane che non riescono più a leggere un giornale senza incontrare parole straniere sconosciute le quali rendono ancor più complicata la comprensione di quanto stanno leggendo. Perché allora i media nostrani, da parte loro, non aiutano la lingua italiana a non impoverirsi e ad evitargli una morte lenta ma sicura limitando l’utilizzo di anglicismi unicamente quando si tratta di parole intraducibili, naturalmente spiegandone il significato ai lettori? Forse i cugini francesi esagerano nella traduzione di ogni termine straniero, anche nell’informatica. Tuttavia ritengo che sia meglio una difesa della propria lingua come fanno loro che l’esterofilia linguistica galoppante con la quale abbiamo a che fare a sud delle Alpi con l’italiano, o no?
Che dire, poi, a parte gli anglicismi, di quanto sta avvenendo con la lingua italiana nella Confederazione Elvetica a nord del Gottardo dove, pur essendo una lingua nazionale, deve combattere quotidianamente anche con le due lingue maggioritarie del Paese, ossia con il tedesco ed il francese. Infatti, oltre Gottardo, siamo sempre più spesso testimoni di un abbandono della lingua di Dante da parte della scuola pubblica (alcuni mesi orsono ci fu il tentativo non riuscito, per fortuna, a San Gallo ed oggi lo stanno facendo – purtroppo con successo – le autorità del Cantone di Obvaldo) nonostante le proteste del governo del Cantone Ticino e di autorevoli linguisti nonché quello di organizzazioni come la Pro-Ticino, la Pro-Grigioni italiano e lo stesso associazionismo italiano in Svizzera con le sue rappresentanze istituzionali dei Comites e del Cgie.
Forse necessiterebbe una maggiore unità di intenti tra tutto il mondo italofono della Confederazione. In caso contrario per la sciatteria di noi italiani ed italofoni, in patria ed all’estero, e per la forza dei numeri che, evidentemente, non sono favorevoli per la lingua italiana andrà a finire che anche tutti noi, un bel giorno, dovremo colloquiare in inglese limitandoci ad usare l’italiano, forse, tra le mura di casa magari costretti dai nonni che, altrimenti, utilizzando l’unica parola conosciuta in inglese ci ripeterebbero continuamente “What?”.
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