«Dedicato a chi si è svegliato, e a chi è morto nell’attesa che gli altri si svegliassero»: questa l’agghiacciante dedica del romanzo di Giovanni Parrotta, Meglio morto che precario. Parole forti, sconcertanti, che di certo non lasciano indifferente il lettore, provocando un ciclone di emozioni, forse di rabbia, la stessa che si prova quando guardando il tg si viene a conoscenza di un altro, l’ennesimo, suicidio. Il problema è che dopo un po’ tutto diventa “consuetudine”, e allora ci si abitua a sentire, per esempio, di un giovane qualunque che si è ucciso in uno squallido monolocale di periferia, perché non riusciva a pagare l’affitto e di lavori stabili, o adeguatamente retribuiti, neanche l’ombra.
E così, i giorni passano e il crescere dei suicidi è direttamente proporzionale all’aumentare vertiginoso della disoccupazione giovanile. Tutto normale. Pura consuetudine. L’essere umano, da sempre, si rattrista, riesce a commuoversi, o comunque ad avere una reazione emotiva, di fronte a singoli eventi, ma quando si trova davanti a situazioni che coinvolgono una “massa” di persone diventa quasi insensibile. Si abitua. Si commuove se vede un bambino per strada, sofferente, ferito, ma scorre velocemente e con estrema indifferenza le pagine dei quotidiani che raccontano di vicende belliche in cui migliaia di bambini perdono la vita. Perché? Perché non si fa più caso a queste notizie? Al giorno d’oggi, nel nostro amato paese, sono tanti, forse troppi, i suicidi o tentati suicidi di uomini e donne che cercano di combattere un “virus” distruttivo, lacerante: la precarietà.
È proprio qui che si inserisce il libro (edito da Iride, marchio del gruppo editoriale Rubbettino, pp. 92, € 10,00) di Giovanni Parrotta – giovane e talentuoso autore. Libro tristemente realista che riflette una società malata, allo sbaraglio, in cui l’individuo ha perso il controllo della sua stessa vita, e preferisce rinunciarvi.
Una vita vissuta tra i compromessi di un mondo da reinventare
Michele, 29 anni, è un giovane che ad un certo punto della sua esistenza inizia a creare una sorta di diario. Attraverso un lungo flashback rivive le tappe più importanti del suo passato: la gioventù, la spensieratezza degli anni del liceo, quegli anni importanti in cui coltivava una vera e propria passione per il calcio (carriera spezzata, ancora prima di iniziare, da uno sfortunatissimo incidente in campo) poi, il fallimento universitario e da qui la discesa, la delusione di fronte ad una vita mediocre, costretta ai margini di una società squallida: la società del lavoro nero e dello sfruttamento.
Dopo la deludente tappa universitaria, Michele decide di lavorare seriamente, così inizia a collaborare con uno studio geometra, ma a stento riesce a ricavare i soldi per pagarsi la benzina per il motorino. Così, dopo una serie di fortuiti incidenti, cambia, da praticante geometra a manovale, poi la breve parentesi in un call center, «un’avventura a progetto» senza speranze e, aspettando di firmare un contratto che, in realtà, non arriverà mai, comincia a percorrere la sua scalata sociale… Sì, ma al contrario.
Il nostro Michele diventa vittima di un sistema che non gli piace, che gli ruba l’anima, la dignità, la voglia di continuare a sperare in un mondo che piano piano lo sta tagliando fuori. Dove sono finiti i veri valori: legalità, dignità, rispetto di se stessi e del prossimo? Lasciare il lavoro non fa che accrescere quel vortice di solitudine che, ormai, lo divora. Ora si sente giudicato anche dalla sua stessa famiglia, da suo padre, bracciante che per non finire nelle mani della ’ndrangheta si spacca la schiena tutto il giorno, ma che sembra piano piano arrendersi alla corruzione e ai compromessi di un mondo da reinventare.
Protagonista di questo mondo, Michele si maschera, imita la superficialità dei suoi amici, facendo l’idiota, bevendo, fumando, ma soprattutto nascondendo la sua vera passione: la scrittura. Sempre più cinico, e realista, ormai non crede più nella possibilità di farcela.
È proprio vero: una rondine non fa primavera, e nonostante Michele si opponga ad una realtà assurda, che non riesce a mandar giù, tutto intorno a lui resta uguale, l’unico cambiamento possibile è rappresentato dalla morte. Il suo urlo di dolore risuona nella lettera che, prima di suicidarsi, scrive alla madre: «Non v’è morte che si consuma lenta e colma d’atroce disincanto più del rimanere a penzoloni strozzato dalla corda della speranza di una vita migliore senza far nulla per migliorarla. Io c’ho provato e non ci sono riuscito. Forse potevo fare di più, forse non ho fatto abbastanza, forse mi potevo piegare».
Prima di uccidersi, Michele riflette sul fatto che avrebbe potuto adeguarsi alle “regole del gioco”, ma forse siamo noi (parte integrante di una società sull’orlo del disastro) che dovremmo riflettere sulle parole di Michele «Forse potevo fare di più». Per tentare di cambiare le cose, forse tutti potremmo, o meglio, dovremmo fare di più.
Il suicidio: l’unica vera forma di ribellione?
I dieci capitoli del libro, in cui la storia di Michele è perfettamente incastonata, catapultano il lettore in un universo marcio, infetto da un male da sradicare. Il piccolo mondo di Michele è quello di una cittadina di provincia, non proprio il luogo dove un giovane ambizioso spera di costruire il suo avvenire. In piccoli centri come questo il lavoro è una vera e propria utopia, non ci sono speranze di crescita per chi, alla maniera picaresca, tenta la scalata sociale.
Ebbene sì, quella che racconta Michele è la storia di un giovane che sogna di andar via, che per sé sogna qualcosa di meglio di un contratto trimestrale a progetto (nell’ipotesi meno catastrofica). Michele ripercorre la sua storia, quella di un giovane idealista e disadattato che non riesce a realizzarsi, a lavorare onestamente, e che, al contrario, deve accontentarsi di lavorare a noir (come se dirlo in francese, e con una bella “r moscia”, facesse sembrare la cosa meno squallida e più “accettabile”… per l’orecchio forse).
Parrotta è in grado di narrare una storia tanto triste quanto attuale attraverso un realismo disarmante che, tra l’altro, ricorda da vicino il neorealismo di Pasolini, il quale conosceva molto bene le condizioni del sottoproletariato urbano nell’immediato Dopoguerra quando la miseria era più tiranna che mai. Cambia lo scenario ma la storia sembra ripetersi, sfogliare le pagine di questo libro, leggerle, lasciarsi trascinare da esse, significa principalmente fare i conti con la rabbia, mescolata alla forte disillusione, che trapela da ogni parola di Michele e dalla sua voglia di “riscatto”. Nel romanzo si percepisce la voglia di resistere ad una realtà che si rivela claustrofobica!
Il tutto si riflette in uno stile originale che, tra accenni freddi ed intimisti, lascia spazio ad un linguaggio crudo, così come cruda è la realtà contro la quale ci si scontra continuamente e di fronte alla quale l’unica soluzione plausibile sembra essere un cappio al collo. Un nodo ben fatto – come quello rappresentato nella copertina, non a caso, del romanzo – e non se ne parla più! Ecco che il suicidio si rivela la cosa più sensata da fare, perché tanto nessuno fa niente e Michele sembra lottare contro i mulini a vento, ma al contrario del famoso Quijote de la Mancha, non è alla ricerca di eroiche avventure bensì semplicemente di un lavoro stabile ed una vita serena.
Sulle orme di un ragazzo tormentato da dubbi ed incertezze, la narrazione, nel suo complesso, non è altro che una “macchina ingegnosa” costruita per adempiere ad un compito gravosissimo: dare un segnale d’allarme. L’autore, senza neanche accorgersene, ha ridato vita all’ideale dell’intellettuale impegnato, si sente forte il “fantasma” del caro Alberto Moravia sempre pronto a dare il suo giudizio sulla realtà politica e sociale del suo tempo. E quand’anche non fosse questo l’intento del nostro autore, la sua bravura sta nel mostrare con forte credibilità narrativa il lato oscuro della società ed il suo crescente egoismo, dunque: meglio morto che precario? La società non ha dato molte alternative al povero Michele, uno di noi, un ragazzo brillante che si arrende ad una vita fatta di sporchi compromessi.
Un libro da leggere tutto d’un fiato, tenendo presente il grandissimo merito dell’autore: aver dato ai lettori una storia su cui riflettere, nella speranza che la riflessione non finisca con la fine del romanzo.
L’efficace imagine e grafica di copertina è di Germana Luisi.
Rossella Michienzi
(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 62, ottobre 2012)
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