30 apr 2011
I NUOVI PROFESSIONISTI? LAUREATI, POCO AUTONOMI E MAL PAGATI
(NoveColonne ATG) Roma - Vengono definiti “lavoratori professionisti” eppure risultano essere poco autonomi, spesso soggetti ad uno stringente orario di lavoro, con contratti a “tempo” piuttosto che a “risultato”. Sono queste le considerazioni che emergono dalla ricerca dell’Ires, promossa dalla Cgil e dalla Filcams, “Professionisti: a quali condizioni?”. Il rapporto dell’istituto di ricerca del sindacato di Corso d'Italia accende un faro sui cambiamenti che hanno investito negli ultimi anni il lavoro autonomo e in particolare quello professionali. Alcuni numeri ne danno un esempio: un esercito di 5 milioni di persone (2 milioni iscritti agli ordini e ai collegi, 3 milioni i non regolati) che per l’80% ha una laurea e dove il 44,6% non supera i 15 mila euro di reddito l'anno. I risultati della ricerca Ires evidenziano come negli ultimi anni l'attenzione si sia concentrata prevalentemente sul lavoro subordinato mentre contemporaneamente si “alteravano gli equilibri economici e sociali sul versante del lavoro autonomo e professionale”. Questo disequilibrio non è tanto prodotto dalla costrizione ad usare forme improprie di lavoro (8,5%), che pure è un fenomeno presente e preoccupante su cui agire tempestivamente. La scarsa autonomia riguarda, infatti, il 19,6% del campione, la gestione definita e controllata di un orario di lavoro il 24,4%, un contratto stipulato sulla base della durata e non sui risultati della prestazione il 20,2%. I processi di cambiamento degli ultimi decenni, sottolinea la ricerca, “hanno indebolito i rapporti di forza che consentivano al singolo professionista o lavoratore autonomo di poter agire sul mercato con sufficiente capacità contrattuale”. Dall’indagine emerge chiaramente come il lavoro autonomo non sia più lo stesso perché “la capacità di contrattare del singolo professionista nei confronti dei propri committenti non è più in equilibrio”: il 58,4% di loro dichiara una possibilità pessima o insufficiente di riuscire a contrattare le condizioni di lavoro. Il tutto mentre, si osserva nella ricerca, “in Italia, non si è intervenuti dal punto di vista legislativo o contrattuale per riequilibrare la parte contraente che si stava indebolendo”.
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